Ore 6.40. Mi sveglio di soprassalto prima che suoni la sveglia, come mi capita ormai da settimane. Non ricordo l’ultima volta che la sveglia mi ha svegliato, ma questa mattina mi sembra apparentemente diversa: sento sulla pelle e nella testa i ricordi di un sogno bellissimo appena fatto, l’acqua del mare, i pesci che si vedono in trasparenza su questa spiaggia dorata, il sole accecante e meravigliosamente caldo. Mi attacco a queste sensazioni come un naufrago si attacca ai pezzi di barca distrutta per rimanere a galla, ma in cuor mio so già che di lì a pochissimo tutto questo svanirà. Dicono che i sogni sono desideri e in effetti vorrei con tutta me stessa che queste sensazioni in questi momenti fossero reali.
Le giornate si susseguono all’incirca simili in tempo di Coronavirus: colazione veloce, doccia e via diretta in farmacia, dalle 8.00 alle 19.00; le pause pranzo, quelle che una volta trascorrevo in palestra o con i colleghi per una riunione, ormai sembrano così lontane. Ho scelto di rimanere in farmacia perché comunque non sono vicina a casa, perché così riesco a gestire tutte quelle richieste di assistenza dei nostri clienti che spaventati mi contattano solo per mail, ma soprattutto ho fatto la scelta di rimanere qui ormai da settimane per non andare a mangiare coi miei genitori, per non metterli a rischio.
Normalità in questi giorni significa fare la videochiamata coi miei genitori, nella quale faccio vedere che sto bene e chiedo loro come stanno, do loro forza e continuo insistentemente a ripetere le stesse cose: “mi raccomando state a casa, non vedete nessuno, non uscite, misuratevi la temperatura e se avete qualsiasi sintomo chiamatemi”.
Tutt’ora penso che forse avrei dovuto fare di più, che forse anche io all’inizio ho sottovalutato questa pandemia, ma è stato tutto così enorme ed improvviso, che una mente umana razionale difficilmente riesce a prenderne coscienza, soprattutto se vivi in una regione come la Lombardia, in una provincia come Brescia, nella quale cresci con la convinzione che l’eccellenza esista, che tu sei preparato a qualsiasi cosa.
Ora invece l’abbiamo tutti bene interiorizzato questo virus maledetto, anche noi colleghe, che sul calendario in comune in farmacia abbiamo scritto spontaneamente in nero la parola INCUBO di fianco al giorno 22 febbraio e da lì in poi ogni giorno lo abbiamo contrassegnato con una x nera; eh sì perché quando arrivi a sera poter mettere quella croce su quel giorno sembra una piccola conquista.
Le storie che raccontano i nostri clienti sono così strazianti nei dettagli che l’unico modo per andare avanti è ascoltarle cercando di non lasciarsi coinvolgere, ma è così difficile poi nella solitudine dei propri pensieri non tornare a quei racconti, non sentirsi frustrati perché non puoi aiutarli con l’ossigeno, il medicinale, il saturimetro o il dispositivo di protezione che non hai ormai da settimane. In quanto direttrice della farmacia cerco di mantenere un clima di serenità anche per le colleghe, cerco di farle sentire in sicurezza per quanto possibile, perché comunque nessuna di noi ricorda da quanto tempo indossa la stessa mascherina, che ormai provoca al viso di ognuna un’irritazione e un rossore cronico.
“Per chi suona la campana” è il romanzo di E. Hemingway che quando lessi tanto tempo fa mi commosse al punto da farmi piangere nel leggere le ultime pagine; ma mai come ora, quando sento ogni giorno più volte al giorno i rintocchi della campana che suonano a morto del campanile della piazza in cui si trova la farmacia, mi rendo conto di quanto siano reali quelle pagine, di quanto la guerra che stiamo affrontando sia vera e atroce.
Antonella Boldini
Farmacista, fiera di esserlo.